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Chianciano, 1-2 marzo 2003

Relazione introduttiva di Giorgio Tonini
alla VII° Assemblea nazionale dei Cristiano sociali

Cari amici e compagni,
teniamo questa nostra VII Assemblea in un momento drammatico, nel quale il mondo intero trattiene il respiro, come a prepararsi ad un colpo violento e tremendo. Intorno a noi tutto si è fatto incerto: il futuro dell'Europa, il destino dell'Italia, le prospettive dell'Ulivo.
Non possiamo allora fare della nostra assemblea un incontro introverso. Dobbiamo farne un momento di dialogo e di confronto su ciò che ci accade attorno. Dobbiamo rivolgerci reciprocamente la domanda su dove e come possiamo portare il nostro contributo, su dove possiamo lasciare il nostro piccolo obolo, come la vedova del Vangelo.
"Alzati gli occhi - racconta il Vangelo di Luca (Lc 21, 1-4) - vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli e disse: 'In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere'".

Venti di guerra, correnti di pace

C'è un vento freddo che spazza il mondo. Un vento che trasporta il rumore sinistro delle armi e già fa presagire il risuonare di grida e lamenti e pianto.
E c'è una corrente calda che gli si oppone, trasportata da milioni di donne e di uomini, di ragazze e di ragazzi, che dall'Australia alla California, passando per l'Europa e l'Italia, come in un atavico rituale collettivo, marciano, cantano, ballano, volti dipinti e drappi colorati, per allontanare la nera maledizione dell'odio, della violenza, della morte.
C'è qualcosa di paradossale in questo contrasto. E' come se la modernità, con la sua intelligenza materializzata, fosse schierata dalla parte della morte: in quelle macchine volanti lanciate contro i grattacieli, o nei missili guidati dai satelliti.
Ed è come se alla vita che non vuole morire e non vuole dare la morte non resti che rifugiarsi nell'antico, quasi nel primordiale: le mani alzate, a scacciare gli spiriti. Forse anche di questo profetizzava quell'evangelico "se non ritornerete come bambini"…
C'è un bambino, nel corpo di un omino anziano, magro come un paria indiano, agile come un montanaro, alla testa della corrente calda. E' un missionario, lo chiamano padre Alex. Nella sua parola è come se si incontrassero la preistoria e il futuro della modernità.
Dice padre Alex che la guerra deve diventare un tabù, come l'incesto o l'antropofagia. E' come voler rifare la preistoria, rivivere in modo diverso l'imprinting originario dell'uomo, fermare la mano di Caino che sta per colpire Abele. Ma è anche, all'opposto, dare un senso alla modernità, darle uno sbocco antropologico e non solo tecnologico. E' come dire: ai nostri occhi moderni la guerra è pratica barbara, primitiva, ripugnante. Per questo va bandita, ovunque e per sempre.
Milioni di persone la pensano come lui. Milioni di persone pensano, a milioni pensiamo, in Occidente, che all'immane tragedia della guerra ci si può forse rassegnare, quando si sia costretti a difendersi da un'aggressione, ma è invece colpevole follia essere noi ad armare una guerra per portarla ad altri, essere noi a fare della guerra la risposta sproporzionata ad una minaccia della quale non riusciamo a percepire né l'imminenza, né una gravità adeguata alla violenza della risposta.
Il 15 febbraio, in tutto l'Occidente, l'uomo moderno, con il suo coraggio adulto e la sua paura bambina, è sceso in piazza, dentro quell'immensa fiumana, dipinta dei colori primordiali della vita. Ha rallentato la macchina della guerra, ma non l'ha fermata, tanto meno l'ha distrutta. A muovere quella gigantesca macchina c'è infatti un carburante molto più potente perfino del petrolio: c'è la paura, un'altra paura.
Anche Bush junior, come padre Alex, ha dentro di sé la preistoria insieme al futuro della modernità. Anche l'uomo più potente, alla testa della nazione più ricca, armata dell'esercito più forte della modernità, come fosse un cavernicolo a mani nude, ha paura.
L'11 settembre 2001, l'America tutta, non solo Bush junior, ha avuto paura. Si è risvegliata in un mondo insicuro, per la prima volta nella storia, si è sentita minacciata dentro casa. Ha vissuto l'angosciosa esperienza della vulnerabilità: un temperino può fare tremila vittime, a New York, in una tranquilla giornata di sole.
E' difficile darle torto, alla paura di Bush, quando pensa e dice che chi non ha esitato a darsi la morte per uccidere tremila persone nel cuore di Manhattan – il più spaventoso attentato terroristico della storia umana, un attentato terroristico che ha avuto le dimensioni di un catastrofico atto di guerra – non si fermerà davanti a nulla.
Se le tremila vittime non sono state trecentomila, o magari tre milioni, dice lucidamente la paura americana, è stato solo per ragioni tecniche, non per ragioni etiche. Se quel commando suicida avesse avuto a disposizione armi di distruzione di massa – atomiche, chimiche, biologiche – assai probabilmente le avrebbe usate.
Per questo Bush ha paura e con lui ha paura tutta l'America. Perché un tabù, quello dell'uso terroristico di armi di distruzione di massa, è caduto. E perché c'è tanto odio nel mondo contro l'America. E l'odio fa paura. Una paura tremenda, se quell'odio può dotarsi di armi terribili.

Dopo l'11 settembre: unilateralismo e guerra preventiva

"Il pericolo più serio che la nostra nazione ha di fronte – ha scritto Bush nel suo contestato documento su "La strategia della sicurezza nazionale" – sta all'intersezione tra il radicalismo e la tecnologia. I nostri nemici hanno dichiarato apertamente di essere alla ricerca di armi distruttive di massa e l'evidenza indica che lo stanno facendo con determinazione. Gli Stati Uniti non permetteranno la riuscita di tali sforzi... Coopereremo con le altre nazioni per respingere, limitare e contenere gli sforzi dei nostri nemici di acquisire le pericolose tecnologie. Inoltre l'America, per buon senso e per autodifesa, agirà contro quelle minacce nascenti prima che si siano pienamente realizzate".
E' la dottrina unilaterale della guerra preventiva, giustificata come legittima difesa contro un terrorismo che ha assunto la scala di pericolosità di un attacco bellico. Con la guerra, Bush vuole colpire gli "Stati canaglia", quelli che possono offrire appoggio ai terroristi nella loro ricerca di armi di distruzione di massa.
Il primo bersaglio, dopo l'Afghanistan che ospitava le basi di al-Quaeda, è l'Iraq. Ormai è chiaro a tutti: Bush non vuole solo disarmarlo, l'Iraq. Vuole rovesciare Saddam Hussein, che non solo è un dittatore sanguinario, ma è anche un giocatore senza scrupoli sullo scacchiere internazionale, una vivente minaccia alla pace e all'equilibrio internazionale.
Abbattendo il regime di Saddam Hussein, Bush vuole instaurare nel cuore del Medio Oriente, nell'area dove si concentra la maggior parte delle riserve petrolifere mondiali, accanto alla traballante monarchia assoluta saudita e all'ancora preoccupante regime teocratico iraniano, un esperimento pilota di democrazia araba amica dell'Occidente: fare di Baghdad quel che fu Berlino Ovest negli anni della guerra fredda, la vetrina del mondo libero ai confini col mondo prigioniero di un sistema totalitario.
Perché, sostiene Bush, non c'è pace e sicurezza e non c'è sviluppo, senza libertà e democrazia. Le democrazie non si fanno la guerra tra loro. E non c'è democrazia che non abbia conosciuto lo sviluppo, l'ingresso nella cerchia dei paesi sviluppati.
In Europa, sostiene Bush, quel modello ha funzionato: a Ovest, sulle ceneri del nazifascismo; a Est su quelle del comunismo. Perché non dovrebbe funzionare anche nel mondo arabo? "Gli Stati Uniti - scrive Bush nel documento su "La strategia della sicurezza nazionale" - devono difendere la libertà e la giustizia poiché questi principi sono giusti e veri per tutte le persone del mondo. Nessuna nazione ha la proprietà di tali ideali e nessuna nazione ne è esente... Nessun popolo della terra vuole essere oppresso, brama la schiavitù o aspetta impaziente che la polizia segreta bussi alla porta di notte".
La paura di Bush e dell'America ha prodotto una proposta, che ha l'ambizione di prosciugare l'odio e quindi rimuovere le cause della paura; che intende opporsi all'integralismo islamico non solo con la forza delle armi, ma anche con quella di un grande disegno geo-politico non privo di suggestioni etiche e perfino religiose, con la ripresa del tema della missione salvifica dell'America nel mondo.
Non dobbiamo commettere l'errore di sottovalutare la proposta di Bush all'America e al mondo. Non sottovalutarla, ovviamente non significa condividerla. Significa però prenderla sul serio, prendere atto che con essa si debbono fare i conti sul terreno della politica e che non ce la si può cavare con un'invettiva morale. Del resto, non c'è nulla che neghi la morale più del moralismo, ossia dell'attitudine a giudicare senza sforzarsi di capire.

Solo l'Onu può autorizzare l'uso della forza

Resta il fatto che la proposta di Bush fa paura: alla maggioranza degli europei, ma anche a tanti americani. Al di là delle divisioni tra i nostri governi, noi europei, anche quanti tra noi – e sono la stragrande maggioranza – nutrono non solo gratitudine, ma amicizia vera per l'America e piena solidarietà con le sue paure, troviamo più ragionevole, saggio, lungimirante, oltre che etico, lavorare a diffondere la democrazia nella pace, piuttosto che imporla con la guerra.
Non siamo sempre del tutto sicuri di avere ragione. Sappiamo che è stato lo spiegamento degli euromissili, anzi la sola minaccia di installarli, ad accelerare negli anni Ottanta la liberazione dei Paesi dell'Est e della stessa Russia dal totalitarismo comunista. E sappiamo anche che senza l'uso della forza da parte della Nato, nei Balcani sarebbe ancora vivo il mostro sanguinario della guerra etnica, con i suoi cecchini, i suoi massacri, le sue fosse comuni.
Ma la via di fare la guerra per portare la pace è troppo tortuosa per non lasciarci perplessi e troppo azzardata per non farci paura.
Tra mille contraddizioni e mille dubbi, la nostra paura europea, che è paura della paura americana, sta faticosamente generando un ragionamento, "l'avvio di un'analisi", l'ha definita Romano Prodi, a partire da due forti obiezioni rivolte a Bush.
La prima obiezione poggia sul terreno della legittimità, ma non è un'obiezione formalista. La proposta di Bush ci pare illegittima perché unilateralista, come tale contraddittoria con il principio e il valore per cui l'uso della forza, per essere legittimo, deve essere deciso in sede multilaterale, innanzi tutto in sede Onu.
Come ha scritto nelle scorse settimane Filippo Andreatta, "il coinvolgimento delle istituzioni internazionali e delle loro procedure giuridiche non è affatto opzionale, ma necessario". Infatti, "la posizione multilateralista si basa sulla convinzione che vi siano due modi distinti di usare la forza, l'uno unilaterale e parziale, l'altro multilaterale e imparziale, e che il secondo sia decisamente preferibile al primo in quanto finalizzato a difendere, piuttosto che a minare, le regole internazionali di comportamento."
A questa logica multilaterale dell'uso della forza, rinvia del resto l'articolo 11 della nostra Costituzione, il quale nel ripudiare "la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni" e "promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".
L'interpretazione prevalente dell'articolo 11, quella meglio fondata sulle intenzioni dei padri costituenti, come esplicitate nei lavori preparatori del testo, sostiene che attraverso di esso l'Italia ripudia la guerra di aggressione e ammette la legittima difesa del Paese o della comunità internazionale, ove deciso dall'Onu. Il ripudio e la cessione di sovranità vanno infatti letti insieme.
Siamo quindi in presenza di una rottura rispetto allo Stato fascista e alle sue guerre di aggressione, ma non della scelta di un pacifismo assoluto: del resto, la Costituzione nasce dalla Resistenza e dalla guerra di Liberazione. Siamo piuttosto davanti alla decisione dell'Italia di chiedere di entrare nell'Organizzazione delle Nazioni unite e di aderire alla sua Carta, già in vigore quando la Costituzione fu approvata.
Il capitolo VII della Carta dell'Onu disciplina la "azione in caso di minaccia contro la pace, di rottura della pace e di atto di aggressione", demandando al Consiglio di sicurezza la constatazione di queste fattispecie e l'assunzione di misure di pressione che non implichino l'uso della forza (articolo 41), ovvero, sulla base dell'articolo 42, "altre operazioni eseguite da forze aeree, navali, o terrestri di Membri delle Nazioni Unite".
La Carta dell'Onu non esclude quindi il ricorso alla forza, neppure quando si tratti di reagire ad una semplice "minaccia contro la pace". Ma espropria di tale strumento la sovranità del singolo Stato, demandando una decisione tanto grave al solo Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Certo, a nessuno sfugge la fragilità dell'Onu, né si possono ignorare i suoi limiti – a cominciare dal fatto che l'Onu non dispone di una propria forza di polizia internazionale – o i condizionamenti da parte delle grandi potenze ai quali è strutturalmente esposta. L'Onu è davvero un "palazzo di vetro".
E tuttavia, dell'Onu si può dire quel che diceva Maritain della democrazia, quando ne scriveva nel pieno della Seconda Guerra mondiale: "La democrazia è la fragile navicella sulla quale viaggiano le speranze temporali dell'umanità". Questa "fragile navicella", sul piano dei rapporti internazionali, oggi sono le Nazioni Unite. E' su quel piccolo legno che viaggiano le nostre speranze temporali di dare un ordine alle relazioni internazionali, di costruire fondamenta solide alla pace, di arrivare un giorno non lontano ad affermare il nuovo tabù, il tabù della guerra.
Per questo non possiamo condividere con Bush l'idea di una guerra preventiva unilaterale. Il mondo ha bisogno di un "nuovo ordine", che superi l'attuale "disordine stabilito". Ma l'America non deve pensare di poterlo instaurare da sola, il "nuovo ordine mondiale", per la semplice ragione che da sola non può farcela.
Proprio perché quel "nuovo ordine mondiale" deve essere l'ordine democratico, nella libertà e nella giustizia, che tutti invochiamo e al quale tutti i popoli aspirano, solo la comunità internazionale nel suo insieme può riuscire a costruirlo: beninteso con un'America e un'Europa che dentro la comunità internazionale, dentro le Nazioni Unite, sostengano insieme, con comune determinazione, questa grande idea del futuro del mondo.

Dall'Europa una via stretta per evitare una guerra sbagliata

Ma la proposta di Bush di portare la guerra in Iraq merita una seconda obiezione, accanto a quella sulla sua legittimità. E' un'obiezione che riguarda la sua ragionevolezza rispetto all'obiettivo che ci si propone, quello di costruire un mondo più sicuro.
"L'Iraq – ha scritto Lucia Annunziata – è un Paese forte e politicamente rilevantissimo: l'intervento militare comporta una sfida tremenda; a partire dal fatto che per la prima volta, dalla Seconda Guerra mondiale, ci si potrebbe presentare lo scenario di un assedio ad una grande città come Baghdad. Non ci sono idee chiare, mi pare, su come questi rischi di intervento verranno ammortizzati. Ancora meno chiara è la prospettiva politica del dopo-Saddam. Che è poi il maggiore obiettivo della guerra. Governo provvisorio unitario e, nel caso, con quale sostituzione per Saddam? L'alternativa, il fallimento di un passaggio morbido a un dopo-Saddam, qual è? Una occupazione militare di lungo periodo del Paese? E con quali costi?"
"Tutti questi dubbi – conclude Lucia Annunziata – stanno a fronte del rischio massimo che si profila sullo sfondo di questo intervento. E il rischio non è quello di una sconfitta militare – che non è tecnicamente possibile – quanto piuttosto di una conduzione della guerra con molte vittime e un post-Saddam caotico. Scenario che innescherebbe una crisi economica dell'Occidente e una destabilizzazione ulteriore del mondo arabo".
Anche nel caso in cui fosse dichiarato legittimo dal Consiglio di sicurezza dell'Onu, un intervento armato in Iraq potrebbe insomma rivelarsi un tragico errore. E non c'è bisogno, per sostenere questa tesi di buon senso, di scomodare il massimalismo pacifista del no alla guerra "senza se e senza ma": una posizione rispettabile, se sostenuta in buona fede; una posizione che attraversa la coscienza di ciascuna persona degna di questo nome; ma che ha il grave inconveniente di radicalizzare lo scontro tra le posizioni in campo e dunque, come ha giustamente osservato Piero Fassino qualche giorno fa, "di rendere più difficile e non più facile il cammino dell'unità" di tutti coloro che intendono usare la politica per evitare la guerra.
Ciò non significa che la grande corrente calda che nei giorni scorsi si è opposta al gelido vento di guerra non abbia avuto e non abbia un grande e positivo ruolo politico, oltre che culturale e morale. Rallentando la corsa della macchina da guerra americana, il movimento per la pace ha conquistato tempo prezioso per quanti si battono per evitare la guerra.
A cominciare dall'Europa, che proprio dalle manifestazioni per la pace ha tratto lo spunto per riproporsi sulla scena con quella "voce sola", per quanto inevitabilmente polifonica, che Romano Prodi aveva inutilmente invocato nei giorni nei quali il vento della guerra soffiava più forte.
L'Europa ha parlato il 17 febbraio, due giorni dopo le grandi manifestazioni popolari. E ha detto tre cose molto chiare. Primo: che l'Iraq è una minaccia per la pace e che va quindi disarmato. Secondo: che questo compito spetta all'Onu e al Consiglio di sicurezza, attraverso gli ispettori con i quali l'Iraq è tenuto a collaborare. Terzo: che i popoli d'Europa vogliono che questo obiettivo sia raggiunto in maniera pacifica, che la guerra non è inevitabile e che l'uso della forza dovrebbe essere solo l'ultima risorsa, che la minaccia del ricorso ad essa è servito fin qui a far rientrare gli ispettori dell'Onu in Iraq e che spetta all'Iraq, accettando e documentando il suo disarmo, la responsabilità di risolvere il conflitto pacificamente.
Con questa presa di posizione, l'Europa ha messo in campo la sua saggezza senza lasciare soli gli Stati Uniti. "Il problema - ha detto Romano Prodi - non è smarcarsi dall'America, ma è come evitare la guerra riuscendo a raggiungere un obiettivo condiviso da tutti: rendere innocuo un dittatore come Saddam Hussein". E' un po' la quadratura del cerchio, ma è in questa direzione che si deve lavorare. Se l'Europa riuscirà a indicare una via d'uscita possibile, non solo salverà la sua unità e l'imprescindibile legame con gli Stati Uniti, ma porrà al tempo stesso le basi per esercitare quel ruolo di potenza mite che è indispensabile per articolare il concetto stesso di Occidente e per dare quindi una valenza non aggressiva, ma inclusiva alla globalizzazione.
Tutte le altre strade non portano da nessuna parte. Non porta da nessuna parte la divisione dell'Europa tra allineati e dissidenti rispetto alla politica dell'amministrazione americana. E non porta da nessuna parte, in particolare, una politica estera italiana che, come è continuamente tentato di fare il nostro governo, pensi di poter avere un ruolo, contro, o anche senza, l'unità dell'Europa.
Il compromesso di Bruxelles resta quindi assai fragile, ma davvero senza alternative. Ad esso hanno concorso in modo determinante Kofi Annan, Romano Prodi e Costas Simitis. Ma anche Blair e Schroeder, Chirac e Aznar, e - è giusto riconoscerlo - lo stesso Berlusconi, sia pure condotto per mano dal Presidente Ciampi da una parte e dalla diplomazia vaticana dall'altra.
Sarebbe stata una buona cosa se sulla linea europea, sottoscritta insieme da Prodi e Berlusconi, si fosse attestato tutto il Parlamento italiano. Il Governo ne avrebbe tratto il giovamento di un indirizzo più chiaro dell'ambigua risoluzione della maggioranza. L'Ulivo avrebbe evitato di dare l'ennesima prova di
incertezza strategica, con la zoppicante mozione unitaria, e di divisione interna nel voto sulla mozione di Rifondazione.
Soprattutto, l'Italia ne avrebbe tratto il giovamento di unirsi attorno all'unica linea plausibile di politica estera che la situazione consenta.
Vedremo nei prossimi giorni se i tentativi di risolvere in modo pacifico quella che la diplomazia vaticana definisce "la grave situazione in Iraq" avranno successo, o se invece il freddo vento della guerra prevarrà sulle speranze di pace. In Parlamento, noi voteremo con l'Ulivo, come abbiamo votato con l'Ulivo la scorsa settimana. Ci batteremo perché l'Ulivo voti contro la partecipazione dell'Italia a interventi armati unilaterali, che non abbiano l'approvazione del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Nell'Ulivo, insieme agli altri amici e compagni del centrosinistra, valuteremo i molti se e i molti ma di un'ipotesi di intervento che dovesse avere l'avvallo delle Nazioni Unite: un avvallo del quale, al momento, non riusciamo a vedere il possibile fondamento.

L'ispirazione religiosa tra radicalità e fondamentalismo

Tra le principali sorgenti che hanno alimentato e alimentano la grande corrente calda rappresentata dal movimento per la pace, c'è anche una forte componente di ispirazione religiosa.
Il Papa stesso ha fatto sentire instancabilmente la sua voce per ammonire tutti i protagonisti della vicenda a non lasciare nulla di intentato per scongiurare la catastrofe, umanitaria innanzi tutto, e poi anche politica e culturale, della guerra.
Accanto ai numerosi incontri diplomatici, il Papa ha invitato tutti i credenti a fare del prossimo mercoledì, mercoledì delle Ceneri, una giornata di preghiera e di digiuno per la pace. Raccogliamo questo appello, come singoli innanzi tutto, ma anche, credo senza forzare alcuna coscienza, come movimento: un soggetto politico che sin dalla sua fondazione, dieci anni fa, "osa" declinare esplicitamente la sua ispirazione cristiana.
In questo problematico passaggio di secolo, la questione religiosa è tornata centrale nel confronto e nel conflitto politico. L'ispirazione religiosa è elemento costitutivo, tutt'altro che secondario, di nuovi movimenti di massa come il movimento "no- o new-global", o il nuovo pacifismo.
La questione religiosa è alla base anche di fenomeni inquietanti come la minaccia del fondamentalismo e dell'integralismo: in particolare, ma non esclusivamente, di origine islamica. Per parlare di fenomeni assai diversi tra loro, si sono visti fondamentalismi e integralismi cristiani e cattolici, talora in feroce conflitto tra loro, nei Balcani; ci sono elementi di fondamentalismo religioso tra le radici della nuova destra repubblicana negli Stati Uniti; mentre a tutti è noto il potere dei piccoli partiti fondamentalisti ebrei in Israele.
Nel bene e nel male, la dimensione religiosa della politica non è insomma un residuo di un passato destinato a soccombere sotto i colpi della secolarizzazione. Al contrario, essa si sta dimostrando capace di assumere forme nuove e assai varie. Diversamente da quanto era avvenuto in particolare nella seconda metà del secolo scorso, l'ispirazione religiosa abita tuttavia sempre meno nei partiti e sempre meno alimenta culture politiche collocabili in quello spazio centrale che nei regimi democratici include (opponendole tra loro) le posizioni moderate alla Helmut Kohl e quelle riformiste alla Jacques Delors.
Essa sembra piuttosto tendere oggi ad incarnarsi nelle forme più "im-mediate" dei movimenti sociali e nella loro visione inevitabilmente semplificata (che non vuol dire ingenua) della realtà. Una visione tendenzialmente dualistica (bene-male, buoni-cattivi), come tale più orientata al giudizio morale e alla ricerca delle colpe, che alla comprensione culturale e alla ricerca delle cause. In definitiva, l'ispirazione religiosa in campo politico sembra dover rispondere innanzi tutto ad una domanda di radicalità, rispetto alla quale la vigilanza contro degenerazioni di tipo fondamentalista o integralista, in nome del principio di laicità – una vigilanza che era strutturale per la generazione di leader cattolici che avevano preparato il Concilio e in quella che ad esso si era formata – tende ad attenuarsi fino quasi a spegnersi del tutto.
Ciò non significa, si badi bene, appiattire ogni forma di movimentiamo di ispirazione religiosa nella categoria del fondamentalismo o dell'integralismo. Significa tuttavia osservare come anche il movimentismo più lontano dal fondamentalismo-integralismo aggressivo e violento, tenda a criticare quest'ultimo più per i contenuti della sua visione che non per il rapporto di tipo immediatistico che esso stabilisce tra la dimensione religiosa e quella dell'azione collettiva.
Si tratta di un "segno dei tempi" che va compreso, prima che giudicato. La sua "verità interna" sta nel mettere in luce la debolezza e l'obsolescenza dei tradizionali canali di rappresentanza e mediazione politica, nei quali faticano a passare le domande radicali dinanzi alle quali è posta la coscienza e l'intelligenza dell'umanità contemporanea.
La politica, nelle sue istituzioni e nei suoi soggetti, appare troppo occupata attorno alle pagliuzze, mentre sembrano sfuggirle le travi. E' capace di infinite contese su questioni tutto sommato marginali, mentre assiste impotente a immani tragedie, che coinvolgono e sconvolgono l'intero genere umano.
Non c'è da stupirsi, dunque, che la politica delle istituzioni e dei partiti appaia assai meno attraente di quella dei movimenti. E non c'è da stupirsi che l'ispirazione religiosa in generale, e quella cristiana in particolare, orfana dei partiti, tenda a spostarsi verso forme movimentiste. Semmai c'è da cogliere - e da tematizzare, con serena franchezza - l'aspetto problematico di questa tendenza, in termini di caduta del valore della laicità, sul terreno ecclesiale, e di indebolimento della democrazia rappresentativa, sul terreno delle istituzioni politiche. E c'è da formulare ipotesi di lavoro per capovolgere i rischi in nuove opportunità.

La radicalità evangelica del "Magnificat"

Alla base di qualunque ipotesi di lavoro sul futuro dell'ispirazione cristiana in politica, non può che esserci la meditazione, spirituale prima ancora che intellettuale, sulla compenetrazione della dimensione della radicalità con quella della mediazione e della laicità.
E' all'inizio del Vangelo di Luca (Lc 1, 52-53) che compare l'Inno alla radicalità più "estremo" della storia umana. E' contenuto nei versi centrali del "Magnificat", la preghiera con la quale Maria – che non era una regina, ma una ragazza-madre promessa sposa a un falegname tentato di ripudiarla – loda il Signore perché "ha rovesciato i potenti dai troni, / ha innalzato gli umili; / ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote."
Questa è la radicalità evangelica. Il Dio di Gesù non è "oppio per i popoli" e "instrumentum regni" per i signori della terra, ma è il Dio eversivo che ha rovesciato i potenti e saziato gli affamati. E ha fatto tutto questo non con la spada, come volevano gli zeloti, che aspettavano un Messia politico, ma perché, dice ancora Maria, un versetto sopra, "ha spiegato la potenza del suo braccio, / ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore".
Ha rovesciato ed ha saziato, ha disperso: tutti verbi al passato prossimo, non al futuro. Non è utopia, è già realtà. Anche se è un "già" che è anche "non ancora". Perché, agli occhi della storia, i potenti sono ancora sui troni e gli affamati sono ancora a mani vuote, perché i superbi non sono stati ancora dispersi nei pensieri del loro cuore.
Il Regno è già tra noi, ma non è ancora compiuto. "Questa tensione - scrive Oscar Cullmann nel suo "Dio e Cesare" - è essenzialmente costitutiva dell'escatologia cristiana". E su di essa si fonda la laicità della politica. "Il dualismo che constatiamo nel Nuovo Testamento - scrive ancora Cullmann - non è un dualismo tra questo mondo e l'aldilà, come presso i Greci; è un dualismo temporale tra il presente e l'avvenire. Per questo il cristianesimo primitivo è così libero nei confronti del mondo, non approvato ma neppure riprovato, in linea di principio, e per questo esso non porta ad un rifiuto ascetico dei dati presenti, tra i quali si trova, per eccellenza, lo Stato".
Insomma, la radicalità evangelica non è altra cosa dalla mediazione politica e dalla laicità delle istituzioni. E' proprio perché il Signore "ha spiegato la potenza del suo braccio", che si è aperta nella storia un'altra possibilità. E questa possibilità nuova va costruita nella storia e con la politica, senza perdere di vista la prospettiva del nuovo, ma anche senza avere la pretesa di saltare, della storia, le lentezze e le contraddizioni, o di annullare, della politica, i limiti radicali e le immancabili opacità.
Dobbiamo dunque guardarci da un esodo dell'ispirazione cristiana, non dico dalla politica dei partiti e delle istituzioni, ma dalla "cultura politica", che è fatta di riflessione e di azione, in favore di un'opzione se non esclusiva, quanto meno preferenziale, per il movimentismo. Sarebbe un tradimento della stessa radicalità evangelica, che non è altro dalla laicità e dalla mediazione. E sarebbe un errore, destinato a prolungare nel tempo i suoi effetti dannosi.
C'è una lettera, scritta in piena Seconda guerra mondiale, da Alcide De Gasperi a Stefano Jacini, illuminante nella sua schietta sincerità: "Il seme della rinascita del partito e dei sindacati cristiani - scrive De Gasperi - sarebbe stato custodito dall'Azione cattolica? Forse tu volevi esprimere che la formazione religiosa della gioventù rappresenta un humus fecondo per la rinascita del seme, ed è una speranza che in questi tempi ho manifestato pubblicamente anch'io. Ma custodia del seme no! Storicamente non è vero, quando nei circoli ufficiali dell'AC si tentò di riprendere la formazione sociale, si dovette cominciare totalmente ab ovo, tanto era lo stato di abbandono e tale la devastazione. In quanto alla politica, meglio non parlarne... L'azione politica e l'azione economico-sociale, per rinascere, hanno dovuto rifarsi in questi giorni a quegli ex-popolari ed ex-sindacalisti bianchi che in un altro momento erano stati invitati o ad uscire dall'AC o a farvi da palo... Il massimo che si può fare - conclude De Gasperi - è rinunziare al vanto di aver conservato il seme noi stessi, ma attribuire il merito proprio a chi ne lasciò soffocare persino il germe, sarebbe come collaudare il metodo seguito e raccomandarlo per ulteriori esperimenti, quod Deus avertat".
I soggetti politici cambiano, insieme alle condizioni storiche. Ma una tradizione di cultura politica va preservata e alimentata, perché non è il frutto dell'emozione di un momento, ma un patrimonio che si accumula nel tempo e che ogni generazione presente ha il dovere di trasmettere, accresciuto perché rivisitato, ripensato, rivissuto, alle generazioni future.

La sfida della bioetica

C'è un tema sul quale nelle prossime settimane il rapporto tra ispirazione cristiana e laicità sarà sollecitato in modo del tutto particolare. E' il tema della bioetica, che – crisi irakena permettendo – potrebbe tornare al centro dell'attenzione politica e mediatica con il voto al Senato sulla proposta di legge, approvata l'anno scorso dalla Camera, in materia di procreazione medicalmente assistita.
Sulla procreazione assistita, già nella scorsa legislatura, si era registrata una lacerante divaricazione, nell'Ulivo, tra la sensibilità cosiddetta "laica" e quella cosiddetta "cattolica". Come dicemmo al nostro Convegno di Vallombrosa, l'8 settembre del 2000, l'incapacità di trovare un punto di convergenza nell'Ulivo tra diverse sensibilità etiche, rendendo impossibile una soluzione legislativa, aveva appannato "la credibilità dell'Ulivo come luogo di incontro e di alleanza tra le diverse culture riformiste, a partire da un condiviso e definitivo superamento degli 'storici steccati' tra laici e cattolici".
Avvertivamo il pericolo mortale che questo fallimento – grave nella sua portata simbolica, ben al di là della pur rilevante importanza della questione bioetica in sé – poteva comportare per l'Ulivo. Quel fallimento rischiava infatti di offrire argomenti alla tesi propagandistica del centrodestra, che dipingeva il centrosinistra come un accordo di potere, che può reggere solo a condizione di rimuovere o di accantonare almeno una parte significativa delle grandi questioni di principio che interpellano l'intelligenza e la coscienza dell'umanità contemporanea.
Per evitare una deriva che non può che portare l'Ulivo alla sconfitta – dicemmo a Vallombrosa – è necessario puntare "su una visione forte e ambiziosa della coalizione, come grande progetto di incontro tra le culture riformiste... Ciò potrà avvenire – aggiungevamo – se da parte dei laici si rafforzerà non solo l'attenzione e il rispetto per chi muove da una visione religiosa del mondo e della vita – rispetto e attenzione che per la verità non sono mai mancati – ma soprattutto la capacità di distinguere con nettezza e rigore tra il sacrosanto primato della coscienza, nella sua incomprimibile, responsabile libertà, e una concezione che veda nella solitudine dell'individuo, al di fuori di qualunque 'responsabilità' nei riguardi degli altri, la fonte indiscutibile e insuperabile della norma morale".
"E potrà avvenire – dicevamo ugualmente – se da parte dei cattolici maturerà un forte e coraggioso, degasperiano senso della laicità, fondato sulla distinzione tra 'aspirazioni di principio', che devono essere coltivate e alimentate dalla comunità ecclesiale, e mediazioni di tipo politico-legislativo, in un quadro di rispetto e di valorizzazione del pluralismo, dinanzi alle quali è giusto e doveroso rivendicare una piena autonomia laicale, che per nessuna ragione può essere espropriata o anche indebitamente coartata dall'autorità della Chiesa. Ciò che è di Cesare, insegna il Vangelo, non è neppure di Dio. Come può essere della Chiesa?"
Questa distinzione è l'antidoto ad ogni clericalismo e il fondamento della responsabile libertà della coscienza laicale.
In un piccolo libro appena uscito, Andrea Riccardi pubblica un verbale inedito di un incontro riservato che Alcide De Gasperi ebbe nella sua casa in Valsugana con mons. Pietro Pavan. Era il 13 agosto del 1952 e Pio XII aveva inviato quel suo autorevole, stretto collaboratore dal grande statista trentino per convincerlo a spostare l'asse della politica italiana verso destra, dando vita ad un fronte che abbracciasse anche monarchici e missini per meglio difendere l’Italia dalla minaccia comunista.
Dopo aver inutilmente tentato di convincere De Gasperi, mons. Pavan gli chiede la disponibilità ad incontrare direttamente il Papa e gli domanda: "In tal caso ella non prevede alcun inconveniente?" "Il Presidente: Esporrei con tutta franchezza la mia tesi. 1) Se il S. Padre mostra di tenerla in considerazione, niente di meglio. 2) Se il S. Padre – per ragioni sue proprie – non la ritiene convincente, ma lascia libertà di scelta, essendo io profondamente convinto della aderenza della mia tesi alla contingenza storica, agirei di conseguenza, nella certezza di fare il bene dell'Italia e della Chiesa. 3) Se il S. Padre decide diversamente, in tal caso mi ritirerei dalla vita politica. Sono cristiano, sono sul finire dei miei giorni e non sarà mai che io agisca contro la volontà espressa del S. Padre. (Il Presidente – riferisce il verbale – ebbe una flessione nella voce che rivelava uno stato d'animo di profonda commozione). Quindi, ricomponendosi, riprendeva ribadendo lo stesso concetto: mi ritirerei dalla vita politica, non potendo svolgere un'azione politica in coscienza ritenuta svantaggiosa alla Patria e alla stessa Chiesa. In tal caso altri mi sostituirà".
Solo coscienze libere e responsabili possono spezzare l'alternativa perversa tra clericalismo e laicismo, tra relativismo e integralismo. L'Ulivo non è riuscito in questa impresa, almeno nell'ultimo scorcio della passata legislatura e questo scacco è stata, a mio modo di vedere, una delle ragioni non secondarie della sconfitta elettorale.
Ora siamo chiamati ad una prova d'appello, da una posizione diversa, quella dell'opposizione: una posizione non necessariamente più facile, perché esposta alla tentazione della deresponsabilizzazione e della conseguente accentuazione delle identità parziali, anziché delle necessarie convergenze.
Non aiuta, del resto, il quadro parlamentare, che vede la maggioranza politicamente blindata, pur nella perplessità di molti settori in particolare di Forza Italia, attorno all'obiettivo di approvare al più presto una legge purchessia, con l'obiettivo di incassare un credito – tra molti pesanti debiti – agli occhi del mondo cattolico e di riproporre la frattura laici-cattolici nell'Ulivo.

Procreazione assistita: un testo da correggere

Il risultato di questa impostazione è stato il disegno di legge approvato alla Camera, che non è un testo "cattolico", è comunque una "mediazione" tra l'etica cattolica e altre visioni; ma è una cattiva mediazione, perché più subita che cercata, dunque fondata sulla giustapposizione di visioni in contrasto tra loro, più che sulla fusione armonica di prospettive che cercano, nella distinzione tra etica e diritto, un punto di convergenza sostenibile.
Alla tutela assoluta dell'embrione, anche a costo di porre medici e ricercatori dinanzi a veri e propri conflitti di coscienza, si affianca così la inevitabile, esplicita salvaguardia della legge sull'aborto, col paradossale risultato di introdurre nel nostro ordinamento giuridico una inedita tutela decrescente, totale e assoluta per l'embrione prima dell'impianto in utero materno, nulla per i tre mesi di vita uterina del feto. Un paradosso che non è né laico né cattolico, né di destra né di sinistra, è semplicemente un nonsenso.
Analogamente, al divieto assoluto di fecondazione eterologa, ossia effettuata con materiale genetico in tutto o in parte estraneo alla coppia, si affianca la possibilità di accesso alle tecniche di fecondazione omologa per le coppie di fatto senza alcuna specificazione da quanto tempo conviventi, con l'evidente rischio che ciò che si vuole tenere fuori della porta rischia di rientrare, in modo sbagliato perché ipocrita, dalla finestra. Di nuovo, la giustapposizione di opposti estremismi, anziché la ricerca di un punto di incontro sensato tra prospettive convergenti.
L'insegnamento che si deve trarre da questa esperienza ancora in corso è che in campo politico-legislativo, anche sulle materie eticamente più sensibili, la mediazione non è una scelta opzionale, ma un dato della realtà, che può produrre buoni risultati solo se viene assunto con onesta responsabilità, mentre rischia di produrre mostri giuridici se viene rimosso in nome di impossibili traduzioni immediate e integrali della norma etica.
Come insegnava Aldo Moro (cito dalla sua relazione al Congresso di Napoli della Dc, 1959), c'è un "salto qualitativo che dati della coscienza morale e religiosa sono costretti a fare, quando essi passano ad esprimersi sul terreno del contingente, con gli strumenti e i modi propri della lotta politica. Ciò vale, naturalmente, in misura anche maggiore per quelle che sono propriamente applicazioni o specificazioni di quei valori, scelte concrete di ordine politico che evidentemente nessun cristiano s'indurrebbe a ritenere del tutto estranee ai supremi valori della vita morale e religiosa, ma che obbediscono tuttavia alla legge di opportunità, di relatività, di prudenza che caratterizza la vita politica, che soprattutto risentono della necessità del confronto, si affermano nella misura in cui riescono a conquistare il maggior numero di consensi, si presentano su di un terreno comune con altre ideologie il quale non può essere quello proprio delle idealità cristiane e con un preciso e rigoroso criterio di verità. Questo dice quanto sia difficile e tormentata la nostra azione sul terreno democratico e quali limiti si trovino sul cammino dei cattolici impegnati nella vita politica, quali rischi si corrano, quale senso di riserbo, di equilibrio, di misura siano necessari per svolgere con vantaggio il difficile processo di attuazione della idea cristiana nella vita sociale".
"Anche dunque perché è così grande l'impegno, anche perché vi sono tali remore e riserve, anche per non impegnare in una vicenda estremamente difficile e rischiosa l'autorità spirituale della Chiesa, - continuava Moro - c'è l'autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica, chiamati a vivere il libero confronto della vita democratica in un contatto senza discriminazioni. L'autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale".
"E nel rischio che corriamo, nel carico che assumiamo – concludeva il grande statista dc, del quale ricorderemo quest'anno il venticinquesimo anniversario della tragica morte – c'è la nostra responsabilità morale e politica e l'adempimento di un dovere costituzionale, il quale, essendo sancita l'autonomia nel proprio ordine della comunità politica, riconduce in questo ambito i diritti ed i doveri relativi alla concreta attuazione di essa. Il che non vuol dire naturalmente che nell'esercizio di questi diritti e nell'adempimento di questi doveri siano assenti valutazioni morali e religiose o che nel loro esercizio ed adempimento sia richiesta una neutralità ideologica, ché invece l'accettazione incondizionata di un terreno comune, quello del dibattito e del libero convincimento, lascia libero l'apporto di ciascuno ed ampio campo di esplicazione alle ispirazioni ed agli ideali presenti nella realtà sociale del nostro Paese".
Al Senato, attorno alla questione della procreazione assistita, stiamo cercando di lavorare con questa ispirazione e in questa prospettiva. Con Luigi Viviani abbiamo predisposto e presentato un disegno di legge che ha l'obiettivo di costruire una convergenza non strumentale, né superficiale tra laici e cattolici, innanzi tutto nell'Ulivo. Il nostro disegno di legge ha raccolto firme in modo trasversale nei Ds, nella Margherita, nello Sdi, nei Verdi.
Ad esso si ispirerà la strategia emendativa di gran parte dell'Ulivo e comunque dei Ds. Una strategia non ostruzionistica e che non mira a stravolgere, ma a correggere in punti significativi la proposta approvata dalla Camera: nella convinzione che sia nostro dovere di legislatori produrre una buona legge, una legge nella quale le diverse visioni etiche si possano incontrare, una legge che non mortifichi l'etica professionale dei medici e degli scienziati, ma faccia appello ad essa come ad una risorsa imprescindibile a consentire il dialogo virtuoso tra l'intelligenza scientifica e la coscienza morale.

Il referendum, frutto avvelenato della crisi dell'unità sindacale

Non c'è stata solo la divaricazione tra cattolici e laici a minare la credibilità e la forza dell'Ulivo: un'altra causa della sconfitta, ugualmente sottovalutata, è stata la rottura dell'unità sindacale. Un processo degenerativo che, come il primo, ha attraversato dolorosamente i Cristiano sociali, formazione politica costitutiva dei Democratici dei sinistra e al tempo stesso profondamente, vitalmente legata all'esperienza della Cisl.
Come a Vallombrosa avevamo lanciato ragionato sulla divaricazione tra laici e cattolici sulle questioni bioetiche, così il 25 novembre del 2000, a Milano, abbiamo lanciato, con le nostre modeste forze, l'allarme rosso sulla deflagrazione dell'unità sindacale, altro fattore di crisi dell'Ulivo.
E lo lanciammo, quell'allarme, prendendo le mosse da due testi, simmetrici e convergenti, di due grandi vecchi della sinistra italiana: una lettera che il nostro Ermanno Gorrieri aveva indirizzato alla Cisl e un'intervista sulla Cgil di Vittorio Foa.
Protestando contro l'adesione sostanziale, se non formale, della Cisl all'avventura politica di Sergio D'Antoni, Gorrieri restituiva la tessera del sindacato al quale era iscritto dal 1948. "Prendo questa decisione con grande dolore – scriveva – resto cislino fino al midollo, ma questa non è più la Cisl che fondarono Pastore e Romani".
"Poiché sono della Cgil – rispondeva idealmente Vittorio Foa in un'intervista – mi sento tenuto, per dovere di civiltà, a vedere più le mie colpe che quelle degli altri. Considero la responsabilità della Cgil (per la crisi dell'unità sindacale) più grande di quella della Cisl. Lavorare per l'unità voleva dire rivolgersi alla Cisl e non rivolgersi a D'Antoni. Cofferati non si è mai rivolto alla Cisl, ma sempre e solo a D'Antoni, segno che pensa di essere la Cgil e che la Cgil si identifichi con la sua persona. Secondo un mio amico della Cisl torinese, gli uomini che sapevano parlare con tutti stanno scomparendo. Vengono avanti coloro che parlano a se stessi. Un altro mio amico della Cgil mi faceva notare che la tradizione della Cgil era di ricercare l'unità proprio quando mancava, perché è facile parlarne quando c'è, ma bisogna ricercarla quando non c'è. Invece, adesso, ai primi cenni di difficoltà si molla tutto. E' una drammatica perdita di cultura, una perdita della capacità di parlare con gli altri e quando io non parlo più con gli altri, preparo il mio isolamento"
Gorrieri e Foa vedevano bene. La crisi dell'unità sindacale, frutto di una caduta dell'autonomia del sindacato e del conseguente emergere di personalismi legati a diverse scommesse politiche, ha minato la credibilità e la forza del sindacalismo confederale, preparando il suo isolamento. Ha anche indebolito, sul versante sociale, l'unità politica dei riformisti, contribuendo alla sconfitta elettorale dell'Ulivo. Ma ha soprattutto accentuato le difficoltà del sindacato.
Certo, c'è stata la battaglia sull'articolo 18. Scioperi riusciti e manifestazioni affollate, fino alla grande prova di forza del Circo Massimo. Resta il fatto che un anno di lotte si conclude con un referendum voluto da Rifondazione comunista e con le confederazioni sindacali e le forze politiche riformiste stretti nella morsa di una scelta assurda: il No con Berlusconi o il Sì con Bertinotti.
Come ha scritto qualche mese fa Pierre Carniti, sulla sua rivista on-line "Eguaglianza e libertà", "le persone ragionevoli si chiedono perché il governo abbia trasformato una questione tutto sommato irrilevante, nel detonatore di un conflitto sociale particolarmente acuto". Un conflitto sociale che è costato caro al Paese e che è stato uno degli aspetti di quel più generale fallimento politico, in campo sociale ed economico, che ha caratterizzato questi primi due anni del governo Berlusconi. La risposta possibile è una sola: per ridimensionare il peso del sindacato. Non c'è riuscito, il governo, attaccando frontalmente. C'è riuscito puntando sulla divisione.
Dell'attacco all'articolo 18 resta poco, sul piano legislativo: una piccola coda in discussione al Senato. Resta invece molto sul terreno dei rapporti sociali e politici. La Cgil da una parte, Cisl e Uil dall'altra, escono dalla vicenda tutti sconfitti.
La Cisl e la Uil, anche per non sottostare all'arroganza degli ultimatum della Cgil, hanno firmato un "Patto per l'Italia" che forse ha ridotto il danno (se il danno era la revisione dell'articolo 18), ma ha comunque avallato una linea di politica economica e sociale non liberista – non scomodiamo la Signora Thatcher, le faremmo un torto – ma invece populista e per questo meno dolorosa ma non meno dannosa.
Dall'altra parte, la Cgil ha mobilitato milioni di persone su una piattaforma più politico-ideologica che sindacale, all'insegna di una "mistica" dei diritti e del conflitto che ha lanciato la leadership politica di Cofferati, ma ha anche aperto la via all'iniziativa referendaria di Bertinotti. Come ha rilevato non a torto Cesare Salvi, se il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa è un diritto fondamentale della persona, non si può graduarne il godimento in base alle dimensioni dell'impresa.
Ma siccome, osserviamo noi, la meccanica estensione di quell'istituto nelle piccole e piccolissime imprese è semplicemente insensato, non è il referendum ad essere la giusta prosecuzione della battaglia sull’articolo 18, ma il non aver saputo distinguere tra un diritto fondamentale – il divieto di licenziamento senza giusta causa – e una particolare (e opinabile, e spesso inefficace) forma di risarcimento, quale è appunto il reintegro, l’errore strategico che ha prodotto anche la sciagura del referendum.

Parti uguali fra disuguali

Come ha scritto giustamente Pietro Ichino, "il solo modo in cui il centrosinistra può uscire dall'impasse è probabilmente quello di riprendere una proposta che dalle sue stesse file venne avanzata nella passata legislatura, modellata sulla legge tedesca: cambiare l'articolo 18 lasciando al giudice di decidere… se disporre la reintegrazione del lavoratore in azienda o assicurargli un risarcimento; ed estendere questo regime, come in Germania, a tutte le aziende con più di quattro dipendenti".
Chissà, se le confederazioni sindacali, unite, e l'Ulivo, unito, avessero risposto, ciascuno nel proprio ambito e con la sua autonomia, con proposte come questa – insieme a quelle che puntano a costruire un nuovo sistema di tutele del lavoratore nel mercato del lavoro più che sul posto di lavoro – alla sfida del governo Berlusconi sull'articolo 18, l'esito di quella battaglia sarebbe stato diverso e la sciagura del referendum sarebbe stata evitata o comunque resa politicamente assai meno dirompente.
La cosa più ragionevole da fare, in questa situazione, è quella di avanzare oggi la proposta legislativa che non si è avuto il coraggio di avanzare ieri. E di fondare su questa piattaforma un chiaro No al referendum e un altrettanto chiaro No nel referendum.
Accanto agli errori e ai problemi, è tuttavia giusto rilevare anche quel che si muove positivamente. E’ cresciuta in questi anni, nell’Ulivo, la consapevolezza della funzione strategica dell’unità sindacale. E’ cresciuta, questa consapevolezza anche nei Ds: aver superato l’univocità di rapporti con la Cgil, aver aperto un confronto non solo formale con Cisl e Uil, aver posto al centro delle politiche sindacali del partito il valore dell’unità sindacale, è uno dei grandi meriti che riconosciamo a Piero Fassino. E ci piace pensare che, almeno in una piccola quota, questo suo merito sia frutto anche del nostro lavoro.
In particolare, l’elaborazione della sinistra e dell’Ulivo sui temi del lavoro non può prescindere dalla cultura della Cisl. Ci sono temi tipicamente cislini che non possono mancare nella sintesi politico-programmatica del riformismo italiano: una concezione della società all’insegna del pluralismo “delle” e non solo “nelle” istituzioni; la conseguente enfasi sull’autonomia del sindacato dalle forze politiche; il primato della contrattazione articolata; l’idea della partecipazione collettiva dei lavoratori ai processi di accumulazione.
Riformismo sociale, oggi, significa – come diceva don Milani e come Gorrieri ci ha riproposto di considerare – "non fare parti uguali fra disuguali". Non basta distribuire, ricchezza e potere. Bisogna re-distribuire, bisogna quindi mettere dentro l'azione distributiva, se si vuole condurre una lotta efficace alla disuguaglianza, un di più di cultura e di intelligenza politica.
Non vale solo nelle politiche del lavoro, questo principio. Vale anche e soprattutto in quelle che riguardano lo Stato sociale. Le gravi disuguaglianze che ancora affliggono la nostra società – ci ha insegnato Gorrieri per una vita intera e, da ultimo, col bel libro che ha pubblicato pochi mesi fa – non possono essere superate con uno Stato sociale che eroghi a pioggia prestazioni e servizi, senza tener conto delle diverse situazioni economiche reali dei destinatari.
L'applicazione del criterio dell'universalismo senza selettività ha portato anche i governi di centro-sinistra a mancare l'obiettivo strategico di un riequilibrio percepibile delle disuguaglianze. Questo parziale fallimento è derivato da una certa diffusa subalternità al dogma neo-liberista della riduzione delle tasse, ma anche alla scelta di strumenti sbagliati per l'attuazione delle politiche redistributive, come le detrazioni fiscali, che ignorano la dimensione familiare e non solo individuale del reddito, invece degli assegni al nucleo familiare.
Un errore del quale molti portano la responsabilità: un certo astratto universalismo del vecchio egualitarismo di sinistra; la sua versione moderna, piegata in un nuovo individualismo; ma anche la preferenza accordata in questi anni dal Forum delle associazioni familiari per la redistribuzione orizzontale (tra famiglie più o meno numerose), anziché per un incrocio tra redistribuzione orizzontale e redistribuzione verticale (famiglie povere e famiglie benestanti): col risultato che le pur non poche risorse impiegate in questo ambito sono state disperse in mille rivoli, beneficiando in modo assai limitato, quasi impercettibile, sia ricchi che poveri e mancando quindi clamorosamente sia l'obiettivo di un effettivo sostegno alla genitorialità, sia quello del riequilibrio delle disuguaglianze.
Con il suo studio, Gorrieri ha offerto ai Cristiano sociali, nei Ds e nell'Ulivo, una piattaforma concreta di iniziativa politica e sociale che dovrà vederci impegnati sin dai prossimi mesi, in Parlamento – riprendendo l'iniziativa che in Senato abbiamo avviato durante la discussione della legge finanziaria, con la presentazione di emendamenti, firmati da tutti i capigruppo dell'Ulivo, volti a rivalutare gli stanziamenti per gli assegni al nucleo familiare – e nella definizione del programma del nuovo Ulivo.

Politiche sociali e democrazia dell'alternanza

Il prossimo mese di settembre, il nostro Movimento varcherà la soglia simbolica dei dieci anni di vita. Fu nel settembre del 1993 che un "Comitato promotore provvisorio", composto da diciotto persone – tra le quali, insieme a Pierre Carniti e a Ermanno Gorrieri, a Gino Vecchio, che ricordiamo con affetto e nostalgia, ad altri amici che hanno poi preso altre strade politiche, c'erano Rino Caviglioli, Mario Colombo, Riccardo Della Rocca, Luciano Guerzoni, Carla Passalacqua, Luigi Viviani ed io stesso – lanciò la proposta di dar vita ai Cristiano sociali.
La premessa al "Manifesto politico-programmatico" esordiva con nettezza: "Democrazia dell'alternanza e centralità delle politiche sociali: è questa la svolta che s'impone nella vita del paese". E proseguiva: "Consapevoli della necessità di processi di ricomposizione politica, i Cristiano sociali non costituiscono un partito, ma una componente attiva e organizzata nello schieramento progressista, alla cui formazione - necessaria per la democrazia dell'alternanza - intendono contribuire come soggetto politico del cambiamento morale e istituzionale che la nuova Italia attende".
"Al realizzarsi di una nuova aggregazione democratica e riformatrice - concludeva la premessa - e alla sua qualificazione politico-programmatica, i Cristiano sociali si propongono di portare il contributo di idee, sensibilità ed esperienze dei cristiani impegnati nel sociale: nel movimento sindacale e cooperativo, nell'associazionismo e nel volontariato, nella cultura e nella ricerca, nel mondo della scuola e della formazione. Obiettivi primari del loro programma sono l'efficienza e la solidarietà, da perseguirsi nell'ambito dell'economia di mercato e col superamento di ogni residuo di cultura populista e assistenzialistica."
In forte sintonia con lo spirito di quel tempo, insieme tormentato ed esaltante, nell'anno del referendum che avrebbe portato l'Italia al sistema elettorale maggioritario e all'elezione diretta dei sindaci, ma anche nell'anno dei governi Amato e Ciampi, alle prese con la più dura crisi economica e la più buia crisi morale dell'Italia del dopoguerra, i Cristiano sociali nascevano su tre grandi scelte: la democrazia dell'alternanza, come approdo politico-istituzionale, reso finalmente possibile dal crollo dei regimi comunisti dell'Est europeo; lo schieramento progressista, come collocazione ideale prima ancora che politica, che tagliava alla radice qualunque nostalgia per l'unità politica dei cattolici e qualunque velleità neo-centrista e poneva il tema di una riorganizzazione innovativa del sistema dei partiti (indimenticabile, a questo riguardo, una relazione davvero fondativa di Alfredo Carlo Moro); il connubio tra efficienza e solidarietà, come banco di prova di politiche economiche e sociali di stampo europeo, che rompessero con la tradizione populistico-assistenzialistica che aveva segnato la lunga stagione del consociativismo, una anomalia italiana che aveva lasciato tracce profonde non solo nel dissesto della spesa pubblica, ma anche nelle culture politiche sia di governo che di opposizione.
A distanza di dieci anni, la transizione politico-istituzionale della democrazia italiana è ancora lontana da una conclusione soddisfacente. Grazie alla legge elettorale Mattarella e nonostante le sue molteplici imperfezioni, abbiamo avuto, in questi anni, il bipolarismo e anche l'alternanza, quella vera, quella decisa dagli elettori. Ma all'innovazione nell'investitura delle maggioranze, non ha finora corrisposto una analoga e coerente innovazione nel complesso rapporto fra Parlamento e Governo e fra maggioranza, leadership e premiership. Le maggioranze restano quindi instabili, i governi incerti, le decisioni difficili.
Non è quindi una fissazione politologica rilanciare il confronto sulle riforme istituzionali: è un'esigenza del Paese, se vogliamo che la democrazia dell'alternanza si consolidi e non venga invece revocata in dubbio. Ed è anche, indubbiamente, una sfida che ci lancia la maggioranza di governo, la Casa delle libertà.
Sono numerose, nel centrosinistra, le voci che avvertono come il rilancio della questione delle riforme costituzionali, da parte della Casa delle libertà, mostri con evidenza i segni di un'operazione strumentale. Si tratterebbe, in buona sostanza, di un diversivo, messo in atto allo scopo di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dai deludenti risultati dell'azione di governo, in particolare nel campo della politica economica e sociale. Di più: con la ripresa del tema delle riforme, Berlusconi si proporrebbe di impaniare l'opposizione in una vischiosissima (e in definitiva inconcludente) discussione sulle regole, utile solo ad una sua personale rilegittimazione.
Questa diffusa opinione ha, a mio parere, il difetto di essere riduttiva. Essa sembra ignorare il carattere necessitato – e dunque strutturale e non contingente – della crisi "da attese deluse" che mina il consenso al Governo Berlusconi e, di conseguenza, inquieta la Casa delle libertà. Si tratta di una crisi nella quale, in tempi più o meno rapidi, finisce col precipitare ogni compagine politica che fondi il suo successo elettorale su una forte componente di tipo populistico, in cui l'irrazionale aspettativa messianica prevale sul consenso ragionato. Proprio perché le aspettative sulle quali si è formato il consenso poggiano su un elevato tasso di irrazionalità, l'impatto col "principio di realtà" è sì differibile nel tempo, ma è comunque inevitabile e, in assenza di correzioni di rotta, inevitabilmente duro.
Le correzioni di rotta possono consistere in una maturazione razionale del circuito del consenso sul quale poggia quella operazione politica, una sua disintossicazione dall'eccesso di populismo. Oppure, tutt'al contrario, nel tentativo di "rilanciare" il meccanismo populistico delle aspettative irrazionalistico-messianiche, verso nuovi oggetti del desiderio.

La Casa delle libertà tra populismo e moderazione

La Casa delle libertà (e Berlusconi in essa) ha cominciato a vedere - in particolare dopo le elezioni amministrative della scorsa primavera - la prospettiva di una collisione col principio di realtà. Non deve quindi meravigliare che si sia aperta, al suo interno, una discussione vera su come correggere la rotta per evitare lo schianto. Nasce soprattutto da qui – mi parrebbe – la contesa tra le due opposte tendenze, che animano il dibattito interno al centrodestra e che prefigurano altrettanti possibili esiti per il Governo e per il Paese. Sul prevalere dell'una o dell'altra tendenza – è bene non dimenticarlo – non sarà irrilevante il ruolo che vorranno giocare, da un lato, le istituzioni di garanzia (a cominciare dalla Presidenza della Repubblica) e, dall'altro, l'opposizione di centrosinistra.
Al momento, non è ragionevole azzardare previsioni su quale delle alternative in campo finirà col prevalere, anche perché non è affatto chiaro per quale di esse propenda Silvio Berlusconi.
Fortissime sono le spinte, interiori prima ancora che esterne, che lo orientano verso un rilancio "populistico" e quindi verso la via tracciata da Bossi e Tremonti, di un'approvazione a maggioranza di "devolution" e presidenzialismo, della conseguente battaglia referendaria e infine delle elezioni presidenziali.
E tuttavia, non meno forti delle spinte populistiche, sono anche le controspinte, i freni, i veri e propri ostacoli. Tra quelli interni alla Casa delle libertà, ai centristi dell'Udc va aggiunto Fini, che fatica a riconoscersi in una strategia pilotata dall'asse Bossi-Tremonti: una strategia che farebbe pagare ad Alleanza nazionale il presidenzialismo (del quale peraltro nell'immediato godrebbe Berlusconi), al prezzo altissimo di una "devolution" scomposta e di un insidiosissimo ritorno alla proporzionale.
Poi ci sono i freni istituzionali, c'è il richiamo del Quirinale e dei presidenti delle camere in favore di riforme condivise e "moderate".
Se il ruolo di Ciampi, Casini e Pera è chiaro, non altrettanto può dirsi di quello dell'opposizione di centrosinistra, nella quale è diffuso - stando a "L'Unità", più tra i militanti che tra gli elettori - un sentimento ostile all'idea stessa del dialogo, per quanto giustamente e rigorosamente circoscritto alle regole istituzionali, "con questa maggioranza".
Sergio Cofferati, in modo particolare, si è fatto interprete di questo sentimento, sostenendo che il dialogo sulle riforme finirebbe per offrire alla Casa delle libertà e a Silvio Berlusconi un'inaccettabile legittimazione. Si tratta di un argomento non peregrino. E tuttavia, non si può neppure negare come in democrazia – e in particolare nella democrazia competitiva bipolare – la legittimazione reciproca non sia una scelta, ma un dato di realtà. La scelta riguarda le modalità e le finalità della reciproca legittimazione. Ci si può legittimare a vicenda per dar vita ad uno scontro tra opposte fazioni e faziosità o, invece, per promuovere le condizioni di un convergente impegno per il Paese, pur nella rigorosa distinzione dei ruoli rispettivamente assegnati dal corpo elettorale, secondo quella dialettica bipolare che è l'ossigeno della democrazia.
Più in concreto, l'Ulivo si trova oggi dinanzi alla scelta non "se" legittimare l'attuale maggioranza di governo, ma "quale" evoluzione di essa concorrere a legittimare: se quella del rilancio populistico, o quella dell'evoluzione liberale ed europea. Fermo restando che la partita è assolutamente aperta, incerta e quindi rischiosa, per il Paese innanzi tutto, ma anche per le prospettive dell'Ulivo, è del tutto evidente che un "no" pregiudiziale al confronto sulle istituzioni, finirebbe per legittimare l'esito populista. E l'esito populista dell'evoluzione del centrodestra, finirebbe a sua volta per retroagire anche sul centrosinistra, allontanandolo dalla sua originaria radice prodiana di "alleanza per il governo" e favorendone una mutazione genetica in senso massimalista e, in definitiva, anch'essa populista.
La via del dialogo, indicata da Ciampi e sostenuta da un largo consenso popolare, come ha mostrato un sondaggio effettuato dall'Unità, va quindi esplorata: con prudenza, ma anche con coraggio. E la via del dialogo possibile passa oggi per il nodo del cosiddetto "premierato forte", strettamente connesso ad un altrettanto forte sistema di garanzie e ad una non meno incisiva riforma federalista, completando il nuovo Titolo V con la riforma del Senato.

La proposta del premierato

E’ in questo quadro che si colloca la proposta di legge che insieme ad autorevoli colleghi ho presentato in Senato (A.S. 1662, "Norme per la stabilizzazione della forma di governo intorno al Primo Ministro e per il riconoscimento di uno Statuto dell'opposizione"). Una proposta che non è passata inosservata ed ha quindi riscosso apprezzamenti, ma anche critiche.
Tra le critiche più diffuse, in particolare nel centrosinistra, c'è quella di "cedimento" alla cosiddetta "deriva plebiscitaria", mediante l'inopportuna introduzione di un "presidenzialismo mascherato", attraverso l'elezione diretta del Primo Ministro.
Si tratta di una critica a mio avviso del tutto infondata. Il premierato si differenzia dal presidenzialismo - e per questo è sempre stato preferito dal riformismo di centrosinistra - proprio in quanto attribuisce agli elettori il potere di eleggere non "un uomo solo al comando", per quanto bilanciato da robusti contrappesi parlamentari, ma una maggioranza parlamentare di governo, col suo programma e il suo Primo Ministro.
Il testo da noi proposto rilancia il premierato (e non il presidenzialismo), proprio in quanto introduce in Costituzione il principio della "elezione contestuale". Un principio che esclude come contraddittorio l'istituto della "sfiducia costruttiva", ossia la possibilità per il Parlamento di alterare l'indirizzo politico espresso dal corpo elettorale. Ma anche un principio con il quale la nostra proposta ritiene più coerente, non la rigidità (sconosciuta ai sistemi anche neo-parlamentari) del "simul stabunt, simul cadent", ma un più flessibile bilanciamento tra potere di sfiducia del Primo Ministro, in capo al Parlamento, e potere di scioglimento della Camera, la cui titolarità politica è attribuita al Primo Ministro, fermo restando il ruolo di garanzia costituzionale mantenuto in capo al Presidente della Repubblica.
Al di là dei rilievi tecnico-costituzionali, la principale obiezione raccolta in questi mesi è tuttavia politica: come potete pensare, ci è stato detto, che Berlusconi abbia bisogno di più poteri? La nostra risposta è che dobbiamo rovesciare la domanda, nel modo seguente: perché è diventato Presidente del Consiglio, col consenso degli elettori, l'uomo che in Italia dispone della maggiore concentrazione di potere privato?
La nostra risposta è: per la debolezza del sistema politico. Una debolezza "passiva", innanzi tutto: dopo la tempesta dei primi anni Novanta, il potere politico si è presentato come facilmente "scalabile" da parte dei poteri non politici e Berlusconi ha saputo approfittarne. Vanno dunque rafforzate le difese passive della politica dall'invadenza degli altri poteri. Innanzi tutto, contrastando la concentrazione dei poteri extrapolitici (a cominciare da quello sui media) e la loro sovrapposizione col potere politico (vigilanza sul conflitto d'interessi). Così come vanno irrobustiti i contrappesi al maggioritario, tutelando meglio le istituzioni di garanzia, prevedendone di nuove e definendo un organico Statuto dei diritti dell'opposizione in Parlamento. Il nostro disegno di legge avanza proposte in questi campi, cercando con ciò di corrispondere alla sacrosanta domanda di nuove garanzie democratiche che emerge da molti settori della società civile.
Ma c'è anche una debolezza "attiva" del nostro sistema politico. Un sistema che grazie al maggioritario (e alla legge Mattarella, che può essere migliorata, ma non va in nessun modo rimessa in discussione) ha realizzato il duplice obiettivo della creazione di maggioranze e dell'alternanza di esse, ma non la coesione interna alle coalizioni e la stabilità dei governi. In assenza di regole, costituzionali o convenzionali, che garantiscano, o quanto meno favoriscano, la stabilità (e l'esperienza dei quattro governi dell'Ulivo, più la candidatura di Rutelli, ha impietosamente evidenziato questa assenza), è possibile che la società cerchi di soddisfare il suo bisogno di governabilità per vie extrapolitiche ed extracostituzionali.
E' vero, quindi, che Berlusconi non ha bisogno di ulteriori poteri, ma i poteri di cui parliamo - e che proponiamo nel disegno di legge - avrebbero fatto comodo a Prodi e all'Ulivo. E faranno comodo all'Ulivo in futuro, come ha lucidamente osservato su "Il Regno" Gianfranco Brunelli, se vorrà che il suo candidato Premier possa competere con Berlusconi anche sul terreno della garanzia della stabilità. E' così che si combattono, sul serio, i rischi di deriva populistico-plebiscitaria.
La nostra proposta, nella sua organicità, è allo stato l'unico possibile terreno di intesa con un centrodestra che decida di imboccare la via dell'evoluzione liberale e non quella del rilancio populistico. Può darsi che non se ne faccia nulla. Basterebbe sapere che, se non se ne farà nulla, non sarà stato per responsabilità di noi dell'Ulivo.

I Cristiano sociali, nei Ds, per l'Ulivo

Tra i critici della proposta di riforma costituzionale sul premierato, c’è anche Gianfranco Pasquino, che dice una cosa importante e che condivido pienamente: la stabilità dei governi e la stessa autorevolezza del Primo Ministro “dipendono non soltanto dalla Costituzione formale, ma soprattutto dal sistema dei partiti”. La ristrutturazione del sistema dei partiti è dunque parte integrante del processo riformatore ed è condizione imprescindibile per il completamento della transizione.
A quasi due anni dal suo insediamento, il Governo Berlusconi preoccupa e non convince. Preoccupa la sua visione illiberale della democrazia e non convince la deludente qualità della sua amministrazione. Nel frattempo cresce nel Paese un’opposizione vasta, spontanea, multicolore, pervasa dal desiderio di dire “no” ad un Governo che, come ha detto Roberto Benigni, ci faccia vergognare di essere italiani. Il problema dinanzi al quale si trova il centrosinistra è quello di organizzare politicamente l’opposizione in modo da strutturare, a partire da essa, un’alternativa vincente all’attuale maggioranza.
Perché questa impresa possa avere successo, c’è una condizione imprenscindibile: l’unità, culturale prima ancora che politica, dei riformisti italiani. Se la sconfitta ha avuto radici culturali – l’incapacità di avanzare una proposta sul futuro del Paese che fosse in grado di parlare al senso comune degli italiani e di mobilitare le loro intelligenze e le loro coscienze, meglio di quanto abbia saputo fare il centrodestra berlusconiano – è dalla cultura che è necessario ripartire.
E la cultura del riformismo è oggi, necessariamente, plurale e unitaria. E’ plurale, doverosamente plurale, nelle radici, nelle tradizioni, nelle storie, nei linguaggi. Ma è altrettanto doverosamente unitaria nel suo approdo: perché il riformismo ha bisogno dell’apporto di tutte e di ciascuna delle tradizioni che ha alle spalle; ma nessuna di esse è in grado, da sola, di articolare un pensiero che possa parlare alla società contemporanea. Né appare sufficiente la sommatoria elettorale di culture separate. La somma di più debolezze non è in grado di fare una forza. Al più può organizzare la “resistenza”, può mettere in campo una politica di opposizione. Ma non è in grado di strutturare una proposta politica che parli al Paese.
Non possono riuscirci neppure le “unità parziali”. Non può riuscirci da sola la Margherita, che pure ha avuto il merito storico di governare positivamente il superamento della “questione democristiana” nel centrosinistra, il superamento, nell’area cattolico-democratica, dell’idea del partito di ispirazione cristiana, dell’idea che l’ispirazione cristiana avesse bisogno, per esprimersi, di un partito “cristiano”. Ma la Margherita - che nella sua carta dei principi si sforza di definire l’identità "cattolico-liberale" del suo riformismo “per differenza” rispetto a quello “socialdemocratico” dei Ds - rischia così di dare alla sua impresa politica basi fragili, più “utili” che convincenti. Non può esserci, né in Italia né in Europa, non solo e non tanto lo spazio politico-elettorale, ma soprattutto il senso culturale di un riformismo che faccia incontrare liberalismo democratico e personalismo cristiano, prescindendo dall’apporto della tradizione socialista.
Ma lo stesso discorso vale, capovolto, per i Ds. Neppure i Ds sono in grado, da soli, di esprimere un progetto politico compiuto. Non è un caso, né la colpa di questo o quello, se in questi due anni i Ds sono stati capaci soprattutto di dividersi. Non può che essere questo l’esito di una contesa politica che ha per oggetto il controllo di quella che Alfredo Reichlin ama chiamare l’autonomia politica e culturale della sinistra italiana.
E’ la nozione stessa di autonomia della sinistra che va contestata in radice, che noi almeno dobbiamo contestare in radice. L’autonomia della sinistra è infatti incompatibile con un’idea dell’unità dei riformisti che non sia alleanza estrinseca tra diversi che intendono restare tali. Non è un caso se il mito dell’autonomia della sinistra ha inghiottito perfino l’idea della pluralità culturale della sinistra, che stava alla base della fondazione dei Ds, ha tentato di alzarsi in volo a Torino ed è definitivamente morta a Pesaro. Perché in definitiva quel mito è un mito identitario, che con le altre culture, storie, identità, tende ad avere un rapporto all’insegna della differenza, per quanto mitigata dalla condivisione di un comune interesse politico.

Il mito identitario dell’autonomia della sinistra

In questo senso, il mito identitario dell’autonomia della sinistra è un mito soggettivistico, tendenzialmente autocentrato, verrebbe da dire autistico. Non nasce a partire dalle cose, dalla necessità di comprenderle, per governarle: questa è la dinamica, culturale prima ancora che politica, del riformismo, ossia dell’incontro sempre aperto, mai compiuto, tra un orizzonte di valori e un metodo di azione pragmatico, non ideologico.
Il mito identitario dell’autonomia della sinistra è una gabbia, che impedisce l’incontro tra riformismi e in definitiva uccide il riformismo stesso. Questo è precisamente ciò che sta accadendo nei Ds e attorno ad essi. L’impossibile coniugazione tra riformismo e autonomia della sinistra sta portando alla crisi del riformismo: una parola malata, dice Cofferati, presto potrebbe essere una parola morta.
Solo squarciando il velo mitico dell’autonomia della sinistra, sottile sinonimo di una vecchia presunzione di autosufficienza – non più politico-elettorale, certo, ma ancora culturale – per non dire il residuato di un’antica tentazione egemonica, sarà possibile rilanciare l’idea riformista, che oggi, in Italia come in Europa, come hanno lucidamente còlto in uno scritto su “Italianieuropei” Massimo D’Alema e Giuliano Amato, o è plurale, o non è.
Il Congresso di Pesaro ha riproposto la definizione dei Ds come partito riformista e socialista di stampo europeo. Ebbene, questa definizione, se è coniugata guardando al futuro e non al passato, è strutturalmente incompatibile con un’autonomia della sinistra pensata “per differenza” rispetto al cosiddetto “cristianesimo liberale” della Margherita. Sarebbe un nonsenso culturale, posto che non si dà in natura, nel Ventunesimo secolo, un socialismo allo stato puro, non mescolato con il riformismo liberale e con quello di ispirazione cristiana. Se non evolverà rapidamente verso l’unità dei riformisti, l’avventura dei Ds rischia di regredire verso il modello frontista dell’unità delle sinistre, come molti segnali interni al partito lasciano già intravedere.
Non sarà con la cultura della “demarcazione” tra i riformismi – che rischia di sostituire la cultura della loro “contaminazione” – che il centrosinistra italiano ritroverà la capacità di parlare al Paese. Ne è prova la stessa esplosione dei movimenti e la durezza della loro carica contestativa contro i gruppi dirigenti delle forze politiche del centrosinistra. Un fenomeno, sotto questi aspetti, pressoché sconosciuto alle grandi democrazie europee. Un fenomeno che affonda le sue radici nella inadeguatezza qualitativa e quantitativa dei partiti politici del centrosinistra, tutti troppo piccoli elettoralmente e troppo poveri culturalmente per essere in grado di parlare alla società. Solo l’Ulivo potrebbe svolgere questa funzione, ma l’Ulivo come soggetto politico organizzato, ancora non esiste.
Il centrosinistra potrà tornare a parlare al Paese quando sarà in grado di presentarsi come Casa comune dei riformisti, secondo la felice espressione prodiana: un soggetto politico unitario e plurale, federativo e federalista, capace di canalizzare il bisogno di partecipazione democratica degli elettori dell’Ulivo, la rivendicazione che essi affermano di decidere programma, leadership, rappresentanza. E capace di raggiungere le dimensioni, anche quantitative, dei grandi partiti riformisti europei; e come i grandi partiti riformisti europei capace di allearsi con formazioni minori, espressione della sinistra critica e antagonista.
La decisione che nei giorni scorsi è stata annunciata di convocare una grande Convenzione dell’Ulivo per definire la sua struttura di soggetto politico e il gruppo dirigente chiamato a guidarlo, è una notizia che accogliamo con una soddisfazione mitigata solo dalla cautela che le tante false partenze del passato ci hanno insegnato. Speriamo bene…

In conclusione e a mo’ di commiato

Per i Cristiano sociali si è chiusa un’altra fase. Dopo la prima, quella della scelta di campo per i Progressisti, contro l’idea del centro equidistante allora sostenuto dai Popolari; e dopo la seconda fase, quella della costruzione dei Ds come soggetto politico nuovo della sinistra italiana, i Cristiano sociali hanno davanti a sé, almeno a mio modo di vedere, un compito nuovo.
I Cristiano sociali sono chiamati a dare il loro contributo alla creazione delle condizioni per la costruzione della Casa comune dei riformisti. Non si tratta di mettere in discussione la scelta per i Ds, ma di considerare i Ds come una fase intermedia, verso l’unità dei riformisti. Si tratta allora di raccogliere le energie, sparse nel vasto arcipelago cattolico e cristiano, interessate ad un percorso culturale e politico finalizzato a questo grande disegno, decisivo per le sorti della democrazia italiana.
Solo se sapremo darci questa nuova missione, potremo superare l’attuale crisi politica e organizzativa del nostro movimento. Una crisi da non sottovalutare e che tuttavia non ha intaccato le possibilità di un rilancio della nostra iniziativa, della nostra presenza, della nostra proposta.
Questa nostra Assemblea dovrà decidere anche la persona, le persone che dovranno guidare il movimento in questa fase nuova. Dopo quasi quattro anni di impegno come coordinatore politico, ritengo concluso il mio mandato. E’ giusto che altri prendano il timone della nostra piccola barca. C’è in campo una candidatura, quella di Mimmo Lucà, che ha condiviso con me in questi anni la difficoltà di condurre il movimento in una fase quanto mai travagliata. Sosterrò la sua candidatura, augurandomi che possa essere espressione di una larga maggioranza di questa Assemblea, e se lo eleggerete non gli farò mancare il mio contributo, nelle forme che lui stesso e il movimento decideranno.
Nel lasciare la guida del movimento, qui a Chianciano, quasi quattro anni fa, Pierre Carniti ci consegnò un ammonimento, scherzoso e severo insieme, mutuato da San Filippo Neri: “Siate buoni, se potete: tutto il resto è vanità”.
Non l’ho mai dimenticata, in questi anni, quella frase. Ho cercato di metterla in pratica, sempre. Per tutte le volte che non ci sono riuscito, vi chiedo perdono.

Buon lavoro, cari amici e compagni!